di Sabino Morano
Fonte nuovecronache.com
La richiesta di una dichiarazione pubblica di antifascismo, fatta ai presentatori dell’edizione 2025 del Festival di Sanremo durante la conferenza stampa di presentazione, sembrerebbe una vicenda quantomeno bizzarra, quasi una cosa da ridere, se non fosse che dietro a detto concetto si nasconde una ideologia radicale intrisa di velleità totalitarie che da anni imperversa nel mainstream. Da generica opposizione ai vari fascismi storici, fatta propria da posizioni politiche anche radicalmente differenti tra di loro, l’anti fascismo (specialmente da quando non esiste più il fascismo), è an dato assumendo sempre più i connotati di una ideologia autonoma, che costituisce la componente fondamentale del mondo culturale progressista, e si presta ad essere utilizzato come strumento intellettuale adatto a sostenerne le tesi più estremiste. La visione manichea promossa dai vincitori della Seconda guerra mondiale ha prodotto una classificazione ideologica che individua come il “male” tutte le posizioni politiche o culturali considerate derivate dal fascismo. Di conseguenza tutto ciò che si oppone al “male” è da considerarsi “bene”, e quindi la posizione culturale “antifascista” diventa una sorta di lasciapassare per veicolare una serie di tesi che poco o nulla hanno a che vedere con gli avvenimenti storici che riguardarono i fascismi. L’”antifascismo” ha avuto molta più fortuna quando non aveva più motivo di essere (ossia quando non esisteva più il fascismo co me regime) che al tempo in cui si verificavano le ragioni storiche del suo costituirsi. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’”antifascismo” fu utilizzato per distribuire patenti di “vincitore” a vari stati europei (magari compromessi o alleati con l’Asse fino a pochi mesi prima); in Italia esso fu sia il grande strumento democristiano (in base alla teoria dell’”arco costituzionale”) per sabotare i tentativi di nascita di forze politiche alla destra della “balena bianca”, sia il mezzo per immaginare e giustificare il “compromesso storico”. Ma ai nostri giorni l’antifascismo, a livello concettuale, esce definitivamente dal campo della opposizione politica ad una forza antinomica (che evidentemente non esiste più), per diventare, attraverso un perverso meccanismo dialettico, una ideologia a sé stante; una ideologia radicale ed intollerante, che, in nome della sua vantata ontologica appartenenza al partito del “bene”, si è fatta portatrice di una “rivoluzione culturale” di impronta totalitaria. Non a caso, in tempi non sospetti, Giulio Andreotti, per stigmatizzare l’utilizzo strumentale della retorica antifascista che si andava facendo in Italia per le più svariate finalità politiche, una volta disse “l’antifascismo è come i vini, bisogna guardare l’anno” A fornire di un “sottostante” teorico la prassi dell’ “antifascismo” post-moderno ci pensò Umberto Eco, con una sua esposizione in un simposio nel 1995, da cui trasse poi il breve saggio “Il fascismo eterno”. Espose allora una tesi secondo cui il fascismo, aldilà delle sue manifestazioni storiche e delle teorie politico-filosofiche alle quali si era appoggiato, si rifaceva emotivamente ad alcuni “archetipi”. Secondo Eco esiste una sorta di “Ur-fascismo” i cui tratti sono ravvisabili, in qualunque epoca storica, in tutti i fenomeni che rispondono o comunque si avvicinano alle caratteristiche che egli ritiene essere tipiche del fascismo. Con questa convinzione il filosofo semiologo crea le condizioni per poter riproporre perpetuamente una dicotomia tra fascismo=male e antifascismo=bene, in base alla quale qualsiasi tesi, purché si dichiari “antifascista”, può ammantarsi di positività e di legittimità. Viceversa, è sufficiente scorgere in una forza politica o in una sensibilità culturale un segno che ricordi i tratti caratteristici del “fascismo eterno”, per dichiarare la sua negatività e per giustificare qualunque arbitrio al fine di scongiurare il “pericolo fascista”. A riprova dell’intenzione di un utilizzo “militante” del saggio, tipico del suo approccio alla cultura, Eco stila un elenco di 14 punti “identificativi” dei tratti peculiari del fascismo; non diversamente da Lombroso (che “riconosceva” l’uomo “delinquente” da una serie di caratteri fisiognomici), il filosofo fornisce al suo pubblico una sorta di vademecum per riconoscere, in qualunque aggregazione politica, sensibilità culturale o anche in un singolo individuo, la presenza di idee e di convinzioni che disvelino l’essenza del fascismo. Di questo elenco di comportamenti ur-fascisti, per capirci, fanno parte cose tipo: culto della tradizione, rifiuto dello spirito illuministico e del modernismo, frustrazione delle classi medie a causa di crisi economiche o pressioni politiche, ossessione per i complotti anche di tipo internazionale, percezione di una eccessiva forza di nemici esterni, eroismo di massa e desiderio di immolare se stessi per la causa comune, machismo, populismo. Non si può non rilevare come, più che un libretto d’istruzioni per riconoscere un fascista (anche quando non va in giro in orbace), i 14 punti di Eco siano un vero e proprio manifesto ideologico, che iscrive tutta una serie di posizioni culturali (volgarizzandole ed irridendole) alla macro-categoria del fascismo=male, elevando contemporaneamente le posizioni opposte alla categoria dell’antifascismo=bene. In realtà Eco (in maniera a dir poco paradossale) si mostra un ottimo allievo del dott. Goebbels (un “Ur-fascista” addirittura nazista), di cui mostra di aver studiato con attenzione la sua esposizione sui principi alla base dalla propaganda politica; infatti, come raccomandava il ministro della propaganda di Hitler, Eco – attraverso l’applicazione del principio del “contagio psichico”, riunisce diversi “avversari” in una sola categoria, o in un solo individuo, per applicare in tal modo il principio della “semplificazione e del nemico unico” (una sola idea, un unico simbolo, come fonte di tutti i mali); – attraverso il principio del “travisamento”, trasforma qualunque episodio, per piccolo ed irrilevante che sia, in una grande minaccia; – mediante il principio della “trasfusione” (ovvero l’evocare eventi provenienti da un substrato storico precedente, ma che hanno contribuito a formare l’opinione pubblica), attiva efficaci tattiche manipolatorie basate sulle associazione d’immagini. Foraggiare continuamente una possente narrazione retorica antifascista ha la funzione di fornire un’arma al conformismo della sinistra progressista internazionale, per colpire tutti quegli aspetti della società, quelle posizioni politiche, quelle appartenenze religiose e culturali, capaci di conservare e preservare forti sentimenti identitari. Gli archetipi dell’”Ur-fascismo” invocati da Eco, a leggerli bene, si rivelano principalmente strumenti per colpire, utilizzando sapientemente le tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica, tutti gli aspetti della cultura tradizionale; non a caso oggi i gruppi di estremisti politici che promuovono il fenomeno della “cancel culture”, spesso si radunano ed agiscono sotto la sigla “Antifa”. Usata originariamente probabilmente nella Germania negli anni Venti (durante la contemporanea ascesa di Mussolini in Italia), la sigla “Antifa” è ricomparsa in Europa in diversi periodi storici; ma negli ultimi anni è diventata negli Stati Uniti la sigla principale dei movimenti di protesta contro la prima presidenza Trump, e dell’avanguardia di una specie di battaglia culturale che si estrinseca, in una sorta di iconoclastia post-moderna, con l’abbattimento di statue e il danneggiamento di monumenti e luoghi simbolo, colpevoli di celebrare una storia che va condannata. In risposta a Trump, che accusava la rete Antifa di essere un’organizzazione di tipo terrorista, il collettivo NewYorkCity Antifa così descriveva la propria organizzazione e le sue finalità sociopolitiche: “Per la cronaca, antifa è l’abbreviazione di azione antifascista o antifascista. Crediamo e combattiamo per un mondo libero da fascismo, razzismo, sessismo, omo / transfobia, antisemitismo, islamofobia e fanatismo”. Già da questa auto descrizione si evince come il movimento dia al termine “antifascista” un significato molto estensivo; in realtà il fascismo viene utilizzato soltanto come evocazione di una serie di eventi storici considerati nefasti, utili a condizionare la sensibilità collettiva in senso favorevole alle proprie istanze, che vengono inopinatamente proclamate opposte al fascismo (anche perché c’è da dire che, se in Italia il regime fascista è scomparso tre quarti di secolo fa, in America non è mai esistito). E’ dunque evidente che la continua necessità di riproporre l’argomento dell’antifascismo, specie nei contesti della cosiddetta “cultura di massa”, nulla ha a che vedere con il fenomeno storico del fascismo e delle opposizioni a questo, ma è parte di una strategia di propaganda messa in campo, in Italia come all’estero, dalle centrali ideologiche del progressismo globalista.