La Nuova Padania
Il federalismo è diventato una parola d’ordine, per quanti vagamente si attendono dall’avvenire un sistema di governo opposto a quello vigente: più rispettoso delle scelte dei cittadini, più libero dalle incrostazioni della corruzione, meno autoritario e più soggetti al contrllo degli amministrati, più imparziale ed attento alle regole del diritto“ (Gianfranco Miglio)
Il 10 agosto del 2001, 23 anni fa, ci lasciava Gianfranco Miglio. L’eco delle sue intuizioni e delle sue analisi, rigorose ed affilate, riguardanti la politica e le sue “regolarità ”, riaffiora, a distanza di tutto questo tempo, con grande forza, come un necessario ancoraggio e bagaglio di pensiero a cui attingere. Quella politica da lui studiata ed approfondita lungo tutto l’arco della sua esistenza umana. La politica che, secondo le sue analisi, doveva alla fine decidere, guidare, come scrisse: “la politica, cioè la lotta per il controllo dell’uomo da parte dell’uomo, è alle origini di tutte le cose umane”.
Gianfranco Miglio, il Profesùr, fu – senza usare mezzi termini – un personaggio scomodo. Lo fu, molto semplicemente, perché non ebbe il timore di affrontare, scientificamente e sistematicamente (fu un grandissimo scienziato della politica) i temi del potere, del conflitto, delle guerre, dell’organizzazione amministrativa dello Stato (la Pubblica Amministrazione). Temi, ovviamente, che avrebbero potuto creare delle insofferenze e dei mal di pancia alle classi dirigenti di allora ma anche al mondo accademico, come infatti avvenne e da cui venne – nella sostanza – ostracizzato.
La cosa incredibile, su cui ancora costantemente rifletto e che ancora oggi mi rammarica profondamente, è che anche a distanza di ventitre anni dalla sua morte, la sua figura sia ancora ritenuta scomoda. Post mortem, infatti, anche i più feroci despoti della storia vengono, in un certo senso, ripresi, studiati, compresi, riletti con un più ampio respiro intellettuale (è già successo di recente con la figura di Berlusconi). Con il Prof. Miglio, invece, questo non è accaduto e non avviene oggi. Non è accaduto nel decennale della scomparsa (agosto 2011), quando pochi mezzi di informazione ne ricordarono la figura, non è accaduto nel 2018 (l’11 gennaio di quell’anno si celebrò il centenario della sua nascita), non accade e non accadrà nemmeno oggi. Non accadrà nel venticinquennale. Non accadrà e basta. Il perché, credo, è presto detto. Parlare di rendite politiche, di parassiti, di diversità socio-economica tra il Nord ed il Sud del Paese, della necessità di riformare alla radice l’organizzazione statuale italiana per arrivare – definitivamente – ad una Unione Italiana (come lui la indicava) nel nome del federalismo, è qualcosa di destabilizzante, di “sovversivo”.
Così come è destabilizzante pensare, come egli fece in moltissime sue analisi, concentrarsi sul concetto di patto, foedus, dello stare insieme. Il contratto-scambio, più volte da lui sottolineato e richiamato, non è nient’altro che il razionale comportamento umano alla ricerca del proprio benessere, all’interno della propria comunità e, soprattutto, insieme a chi condivide i tuoi stessi valori, lo stesso concetto di vita. Da qui, appunto, la sua idea, rivoluzionaria sotto certi aspetti, del diritto – naturale – per ogni comunità territoriale di stare “con chi si vuole e con chi ci vuole”: il diritto di secessione. Che nella definizione di Miglio “è un diritto prepolitico, che esiste, al pari del diritto di resistenza, come un prius rispetto ad ogni comunità politica organizzata”. Un concetto, per Miglio, che dovrebbe essere presente in un qualsiasi ordinamento che si configuri come federale.
Fu scomodo perché, senza usare giri di parole, ipotizzò la trasformazione dell’Italia in un moderno Stato federale. Uno Stato federale che avrebbe dovuto essere costruito su tre Macroregioni (Repubblica del Nord, Repubblica dell’Etruria e Repubblica del Sud – vedi Decalogo di Assago) più le Regioni a Statuto speciale. Un federalismo, il suo, molto diverso da quello “classico”. Lui, sostanzialmente, considerava il federalismo non più come uno strumento atto ad unire, ma quale strategia per “tutelare e gestire le diversità ” (ex uno plures, dallo Stato unitario centralizzato, cioè da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, si giunge – dopo un processo di federalizzazione – ad un sistema costituito da più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo, il principio del federalismo). Proprio ciò di cui avrebbe bisogno l’Italia, Paese ultracentralizzato, altamente burocratizzato, completamente incentrato sull’idea che ogni bisogno che scaturisce dalla società debba essere – automaticamente – risolto e preso in carico dallo Stato.
Tempo fa mi è capitato di rileggere un articolo su Miglio scritto da Marcello Veneziani, giornalista, scrittore e grande intellettuale di destra con cui Miglio intrattenne un’amicizia sincera e un proficuo scambio di idee, proprio sui temi del federalismo, della secessione, del nazionalismo (vedi il volume “Padania, Italia. Lo Stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito?”, pubblicato nel 1997). Ebbene, in quell’articolo, Miglio è definito come un sovranista ante litteram, una sorta di precursore dei Salvini e Orban contemporanei. Ovviamente non condivido nella maniera più assoluta questo accostamento, in quanto quello che fu l’ideologo del Carroccio non avrebbe mai accettato la trasformazione della Lega in una forza politica nazionalista (quindi statalista) e – ahimè – votata all’omologazione culturale delle diversità regionali e, pertanto, antifederalista. Così come credo sia fare un grande torto a Miglio stesso accostarlo al concetto di sovranismo, ovvero all’idea di rafforzare sempre di più le prerogative dello Stato (dal termine sovranità ), mentre il Professore lariano fu – sempre e comunque – visceralmente federalista, fino ad avvicinarsi, negli ultimi anni della sua vita, a posizioni libertarie. Così come, se fosse ancora qui oggi, non darebbe un giudizio positivo alla cosiddetta “autonomia differenziata”; o meglio la riterrebbe un piccolo decentramento, non di più (altro che spaccare il Paese).
Purtroppo il cammino da compiere, meglio, da riprendere completamente, è lungo. Lunga la strada verso quella costruzione federale che il Professore ci aveva indicato. Verso il federalismo vero.
Ciao Profesùr. Come faccio ogni anno il 10 di agosto la ricordo e mi auguro che, da lassù, possa vegliare su noi sinceri e autentici federalisti.
Il federalismo è diventato una parola d’ordine, per quanti vagamente si attendono dall’avvenire un sistema di governo opposto a quello vigente: più rispettoso delle scelte dei cittadini, più libero dalle incrostazioni della corruzione, meno autoritario e più soggetti al contrllo degli amministrati, più imparziale ed attento alle regole del diritto“ (Gianfranco Miglio)
Il 10 agosto del 2001, 23 anni fa, ci lasciava Gianfranco Miglio. L’eco delle sue intuizioni e delle sue analisi, rigorose ed affilate, riguardanti la politica e le sue “regolarità ”, riaffiora, a distanza di tutto questo tempo, con grande forza, come un necessario ancoraggio e bagaglio di pensiero a cui attingere. Quella politica da lui studiata ed approfondita lungo tutto l’arco della sua esistenza umana. La politica che, secondo le sue analisi, doveva alla fine decidere, guidare, come scrisse: “la politica, cioè la lotta per il controllo dell’uomo da parte dell’uomo, è alle origini di tutte le cose umane”.
Gianfranco Miglio, il Profesùr, fu – senza usare mezzi termini – un personaggio scomodo. Lo fu, molto semplicemente, perché non ebbe il timore di affrontare, scientificamente e sistematicamente (fu un grandissimo scienziato della politica) i temi del potere, del conflitto, delle guerre, dell’organizzazione amministrativa dello Stato (la Pubblica Amministrazione). Temi, ovviamente, che avrebbero potuto creare delle insofferenze e dei mal di pancia alle classi dirigenti di allora ma anche al mondo accademico, come infatti avvenne e da cui venne – nella sostanza – ostracizzato.
La cosa incredibile, su cui ancora costantemente rifletto e che ancora oggi mi rammarica profondamente, è che anche a distanza di ventitre anni dalla sua morte, la sua figura sia ancora ritenuta scomoda. Post mortem, infatti, anche i più feroci despoti della storia vengono, in un certo senso, ripresi, studiati, compresi, riletti con un più ampio respiro intellettuale (è già successo di recente con la figura di Berlusconi). Con il Prof. Miglio, invece, questo non è accaduto e non avviene oggi. Non è accaduto nel decennale della scomparsa (agosto 2011), quando pochi mezzi di informazione ne ricordarono la figura, non è accaduto nel 2018 (l’11 gennaio di quell’anno si celebrò il centenario della sua nascita), non accade e non accadrà nemmeno oggi. Non accadrà nel venticinquennale. Non accadrà e basta. Il perché, credo, è presto detto. Parlare di rendite politiche, di parassiti, di diversità socio-economica tra il Nord ed il Sud del Paese, della necessità di riformare alla radice l’organizzazione statuale italiana per arrivare – definitivamente – ad una Unione Italiana (come lui la indicava) nel nome del federalismo, è qualcosa di destabilizzante, di “sovversivo”.
Così come è destabilizzante pensare, come egli fece in moltissime sue analisi, concentrarsi sul concetto di patto, foedus, dello stare insieme. Il contratto-scambio, più volte da lui sottolineato e richiamato, non è nient’altro che il razionale comportamento umano alla ricerca del proprio benessere, all’interno della propria comunità e, soprattutto, insieme a chi condivide i tuoi stessi valori, lo stesso concetto di vita. Da qui, appunto, la sua idea, rivoluzionaria sotto certi aspetti, del diritto – naturale – per ogni comunità territoriale di stare “con chi si vuole e con chi ci vuole”: il diritto di secessione. Che nella definizione di Miglio “è un diritto prepolitico, che esiste, al pari del diritto di resistenza, come un prius rispetto ad ogni comunità politica organizzata”. Un concetto, per Miglio, che dovrebbe essere presente in un qualsiasi ordinamento che si configuri come federale.
Fu scomodo perché, senza usare giri di parole, ipotizzò la trasformazione dell’Italia in un moderno Stato federale. Uno Stato federale che avrebbe dovuto essere costruito su tre Macroregioni (Repubblica del Nord, Repubblica dell’Etruria e Repubblica del Sud – vedi Decalogo di Assago) più le Regioni a Statuto speciale. Un federalismo, il suo, molto diverso da quello “classico”. Lui, sostanzialmente, considerava il federalismo non più come uno strumento atto ad unire, ma quale strategia per “tutelare e gestire le diversità ” (ex uno plures, dallo Stato unitario centralizzato, cioè da un’unica entità sovrana, lo Stato nazionale, si giunge – dopo un processo di federalizzazione – ad un sistema costituito da più sovranità distinte tra loro ed unite da un patto federativo, il principio del federalismo). Proprio ciò di cui avrebbe bisogno l’Italia, Paese ultracentralizzato, altamente burocratizzato, completamente incentrato sull’idea che ogni bisogno che scaturisce dalla società debba essere – automaticamente – risolto e preso in carico dallo Stato.
Tempo fa mi è capitato di rileggere un articolo su Miglio scritto da Marcello Veneziani, giornalista, scrittore e grande intellettuale di destra con cui Miglio intrattenne un’amicizia sincera e un proficuo scambio di idee, proprio sui temi del federalismo, della secessione, del nazionalismo (vedi il volume “Padania, Italia. Lo Stato nazionale è soltanto in crisi o non è mai esistito?”, pubblicato nel 1997). Ebbene, in quell’articolo, Miglio è definito come un sovranista ante litteram, una sorta di precursore dei Salvini e Orban contemporanei. Ovviamente non condivido nella maniera più assoluta questo accostamento, in quanto quello che fu l’ideologo del Carroccio non avrebbe mai accettato la trasformazione della Lega in una forza politica nazionalista (quindi statalista) e – ahimè – votata all’omologazione culturale delle diversità regionali e, pertanto, antifederalista. Così come credo sia fare un grande torto a Miglio stesso accostarlo al concetto di sovranismo, ovvero all’idea di rafforzare sempre di più le prerogative dello Stato (dal termine sovranità ), mentre il Professore lariano fu – sempre e comunque – visceralmente federalista, fino ad avvicinarsi, negli ultimi anni della sua vita, a posizioni libertarie. Così come, se fosse ancora qui oggi, non darebbe un giudizio positivo alla cosiddetta “autonomia differenziata”; o meglio la riterrebbe un piccolo decentramento, non di più (altro che spaccare il Paese).
Purtroppo il cammino da compiere, meglio, da riprendere completamente, è lungo. Lunga la strada verso quella costruzione federale che il Professore ci aveva indicato. Verso il federalismo vero.
Ciao Profesùr. Come faccio ogni anno il 10 di agosto la ricordo e mi auguro che, da lassù, possa vegliare su noi sinceri e autentici federalisti.
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