Il rito di fondazione del nascente Stato padano comincia solennemente con un battesimo pagano (la raccolta dell’ampolla d’acqua sacra del dio Po) e finisce con l’invito prosastico a “gettare il tricolore nel cesso”. Il 15 settembre a Venezia non ci sono (né ci potrebbero entrare) i due milioni di persone che Bossi millanta ma anche i 120mila partecipanti reali sono una cifra. Intanto sul territorio i militanti “duri e puri”, spalleggiati dai dirigenti più esplicitamente di destra, come il torinese Mario Borghezio, s’impegnano nelle ronde securitarie, nella caccia a prostitute, piccoli spacciatori e immigrati in genere. Un terreno fertile per il reclutamento di attivisti e la conquista di simpatie elettorale di ampi strati sociali che, ansiosi di ordine e sicurezza, sbandano a destra. Quando il “prefetto terrone” destituisce il sindaco leghista di Monza per una condanna per abuso d’ufficio, il manifesto “indipendentista” della sezione cittadina è difeso dal segretario provinciale. Borghezio lo condanna: toni troppo moderati. Sulla stessa linea si colloca l’esercizio sistematico della difesa e della promozione del peggiore egoismo sociale, con il tentativo di introdurre nei concorsi indetti dalle amministrazioni leghiste (per lavoro e casa) un bonus per i residenti padani. Quando si sforza di respingere le accuse di razzismo (“Se esiste un concetto estraneo alla Lega, è il razzismo…Oggi il sistema capitalistico porta gli extracomunitari da noi per favorire la nascita di una società multirazziale, di uomini identici con uguali ambizioni e nessuna tradizione…Per me tutti gli uomini sono uguali, hanno la medesima dignità . Il più nero dei neri ha gli stessi diritti del mio vicino di casa. Ma a casa sua” Bossi rievoca le ossessioni della più radicale destra antimondialista come ci racconta Ugo Maria Tassinari nel suo libro Fascisteria.
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