“Insieme ce la faremo” “Andrà tutto bene” sono frasi fatte, semplici incoraggiamenti che si utilizzano ogni giorno che passa. In questi tempi tristi, causa emergenza corona virus sono diventati parole d'ordine dei fans del politicamente corretto, del pensiero unico debole dominante che le hanno ripetute in ogni occasione, anche e soprattutto quando le cose non andavano bene. Per gli amanti del politicamente corretto e per gli oppositori che sostenevano invece che non andrà tutto bene, da alcuni giorni è in libreria il nuovo lavoro dei colleghi Francesco Cirillo e Carlo Porcaro, non è andato tutto bene. Manuale per Rialzarsi edito da Castelvecchi, di cui consiglio una attenta ed approfondita lettura.
Se fosse durato poco? Se il coronavirus fosse stato passeggero, rapido, sostanzialmente innocuo, che effetti avrebbe
avuto su di noi? Non saremmo arrivati alla condizione in cui ci troviamo oggi dopo mesi di quarantena forzata in
casa. Lo avremmo vissuto come una semplice influenza di stagione, come del resto molti virologi avevano sostenuto
quando erano emerse le prime notizie relative alla Cina.
“Che sarà mai?”, ci siamo chiesti al netto di qualche ipocondriaco. Di influenza si può morire certo, ma in misura
marginale e, comunque, ci si può curare a casa. “Mica si finisce intubati in un reparto di terapia intensiva?”. È stata
la nostra domanda retorica.
Se fosse durato poco, non saremmo qui a scriverne, a rifletterci, a chiederci cosa sarà di noi domani. Invece il virus
ci ha costretti, cogliendoci di sorpresa, a farlo. A parlare a noi stessi, innanzitutto. Ci ha rifilato uno schiaffone
improvviso. Non è un caso che queste righe siano state scritte in piena notte perché non riuscivo a dormire, come
tanti italiani colti da insonnia da lockdown. Una zanzara, quasi a voler aggravare la difficoltà del momento e
confermandosi un essere vivente insensibile al dolore altrui, mi ha ronzato tutta la notte nelle orecchie per impedire
di addormentarmi sereno. Vabbè, poco male. Siamo stati qui a scriverne, forse meglio così. Il “Che sarà mai?”
questa volta ce lo siamo potuti davvero chiedere tirando un sospiro di sollievo per non esserci ammalati.
Ho cominciato a pensare che tutto ciò che ci accade, bello o brutto che sia, abbia un senso, uno scopo non
immediatamente verificabile. Ogni cosa sembra collocarsi naturalmente al proprio posto, come i tasselli di un
puzzle da comporre. Un percorso visibile soltanto quando è terminato, possiamo vederlo una volta che volgiamo
lo sguardo all’indietro. Forse, come dopo un lutto, abbiamo bisogno di spiegazioni, giustificazioni, appigli. Il
nostro bio-ritmo è stato completamente stravolto per diversi mesi. Poco male essere stati costretti a stare in casa
rispetto a chi è morto o è si gravemente malato di coronavirus. Con gradualità ci riapproprieremo della nostra vita,
che intanto è stata segnata per sempre da questo trauma. Per guarire dagli effetti collaterali, ci siamo accomodati
volenti o nolenti in una grande seduta psicanalitica collettiva.
Questo nemico invisibile non ha portato soltanto effetti malefici. Ci ha fatto riscoprire la vulnerabilità dell’uomo.
Consapevole della sua caducità, del fatto che “la morte è l’unica certezza che abbiamo da sempre”. Che l’uomo
credeva di essere inattaccabile, “Homo deus” come profetizzato dallo studioso israeliano Harari1
. Il male del
secolo, il cancro, ci ha resi deboli, miete milioni di vittime, ma spesso le cure possono prolungarci l'esistenza.
Insomma, ci conviviamo e la morte quanto meno si allontana. Questo virus verrà debellato col vaccino, certo, ma
intanto ci ha colti di sorpresa, ha travolto l'intero globo, rimasto inerme sotto i suoi colpi. La scienza, la tecnologia,
gli Stati, sono rimasti tutti tramortiti in misura differente da un fattore inedito e imprevisto. Non so se fosse anche
imprevedibile. Tant’è. La conseguenza è stata drastica, senza appello: sulla nostra testa è rimasta sospesa una spada
di Damocle che ha restituito umanità a chi si era dimenticato di essere un semplice essere umano, una piccola parte
dell'universo.
Il destino, laicamente o fideisticamente inteso, si è presentato in maniera aggressiva e violenta a ricordarci che
esisteva e continua ad esistere. Ci ha guardati e continua a guardarci, così, senza alcuna pietà. Devo ammettere che
non riesco, ed è una sfida per ognuno di noi per il domani da costruire con le nostre mani anche se marchiati a vita
da questa esperienza, a spiegare tutto quello che ci sta accadendo in maniera esclusivamente razionale. Da una parte
me ne dolgo, dall’altra mi conforta. Se fosse durato poco, come sempre fa l’uomo dinanzi agli eventi subitanei,
saremmo passati avanti, avremmo dimenticato in fretta, non gli avremmo dato neanche tanto peso.
Avremmo pensato: “Pericolo scampato”. Invece i traumi, come essere travolti da un virus aggressivo che falcidia
l’intero globo, sono destinati a lasciare un segno. Visibile o invisibile, materiale o psicologico, ma certamente
indelebile. Tra venti anni potremo mai non ricordare questo periodo della nostra vita passata tra giornate
interminabili, uscite con mascherina e guanti, sguardi bassi e spot emozionali in tv a ricordarci di restare a casa e
stringerci in abbracci virtuali? Impossibile, sinceramente. Un’esperienza formativa? Ci andrei piano. I traumi
sarebbe sempre preferibile evitarli, molto meglio vivere in serenità con se stessi e con gli altri. Intanto è arrivato, è
caduto sulle nostre teste mentre pensavamo ad altro e ci sentivamo sicuri. Possiamo viaggiare da una parte all’altra
del mondo in poche ore, possiamo collegarci in pochi secondi con persone lontane, possiamo costruire in
laboratorio qualsiasi marchingegno. Siamo gli esseri umani, per Dio. Siamo invincibili, siamo ciò che possiamo e
vogliamo essere. Questo pensavamo, senza dircelo. Il coronavirus ha voluto inviarci un messaggio di natura etica?
No, al massimo potremmo attribuirglielo noi.
Potremmo utilizzare la chiave di lettura “amministrativa”, in modo da interpretare un fenomeno tutto sommato
“sanitario” dovuto in primis ad una serie di inefficienze di carattere amministrativo e gestionale in particolar
modo in Lombardia. Sì, perché se, per assurdo, avessimo avuto 100 ospedali in più e 500 posti di terapia intensiva
in più gli effetti di contagiosità e letalità del Covid-19 non sarebbero giunti ai numeri agghiaccianti elencati ogni
giorno dalla Protezione Civile in quel triste rosario delle 18. Insomma, il sistema avrebbe retto. Se fosse durato
poco, addirittura non ce ne saremmo accorti come non ci siamo mai accorti dei picchi influenzali in alcune zone e
riguardo a determinate fasce d’età. Che cosa resterà? Fuori, a livello esteriore forse poco.
1
Y.N. Harari, ההיסטוריה של המחר ,Dvir Publishing, 2015; trad. It. Homo deus-breve storia del futuro, Bompiani, 2015.
Al massimo, i capelli lunghi per la forzata chiusura di parrucchieri e barbieri per ben tre mesi. Dentro, invece,
resterà tantissimo. Lo choc sarà visibile soltanto in minima parte. Come tutti i traumi, vengono introiettati, vissuti
intimamente, subiti inconsciamente e quindi ributtati fuori in modalità non sempre controllabili. Di sicuro, resterà
una memoria visiva e una memoria sensoriale. Le immagini delle bare in fila sui carri armati dei militari, Papa
Francesco solo in una piazza San Pietro vuota e livida alla vigilia di Pasqua, il Presidente della Repubblica Sergio
Mattarella che scende le scale dell’Altare della Patria il 25 aprile indossando la mascherina e senza folla al seguito.
Le sirene delle ambulanze, il megafono della protezione civile che invita a stare in casa, le campane delle chiese che
suonano a morte in assenza di funerali. Il rapporto tra produzione industriale e qualità della vita è il fulcro di ogni
ragionamento.
Le generazioni a venire saranno gravate da alti livelli di debito pubblico e privato. Anche queste cose
uccidono. Se tutto questo è il prezzo per salvare vite umane, dobbiamo chiederci se ne vale la pena. La
verità è che nelle politiche pubbliche non ci sono valori assoluti, nemmeno la conservazione della vita. Ci
sono solo pro e contro. Non permettiamo forse di circolare con le automobili, tra le armi più letali che
siano mai state concepite, anche se sappiamo con certezza che ogni anno verranno uccise o mutilate migliaia
di persone? Lo facciamo perché riteniamo che sia un prezzo che vale la pena pagare per muoversi in
velocità e comodità. Ognuno di noi che guida è una parte tacita di quel patto faustiano.
Questo quanto scriveva il 5 aprile scorso sul «Times»2
Lord Sumption, ex giudice della Corte Suprema del Regno
Unito. Dinanzi a noi abbiamo ancora una volta un percorso non visibile. Pochi giorni dopo il massmediologo
Alberto Abruzzese3
ci illumina dalle pagine del «Riformista» scrivendo: «Necessario ribaltare di netto, o quanto
più possibile, il paradigma (la mentalità) occidentale. Provare a fare sì che non sia il soggetto della tradizione
moderna a dovere farsi carico della persona ma questa a trovare la capacità di modificare quanto più possibile i
contenuti, i modi e le forme, del soggetto. Tanto quanto quella parte di sé che lo sostiene condividendone e
subendone gli stessi appetiti».
Un obiettivo, questo, che secondo Abruzzese richiede non una palingenesi immediata, impossibile proprio a causa
dello stato di necessità e di sopravvivenza che lega tra loro persona e soggetto, ma tempi assai lunghi di interazione
reciproca tra i due opposti fronti. «Tra i dispositivi in uso nel sapere pensare del soggetto moderno (ma
finalmente disposto, determinato a modificare i propri paradigmi) e i contenuti della persona in quanto oggettiva
capacità di sentire le afflizioni del potere sulla propria carne», chiarisce4
. Non è affatto detto che saremo migliori.
Lo scopriremo, appunto, a strada già finita.
Dopo tanta fatica, dopo aver versato litri di sudore, dopo tante notti insonni a sperare in un futuro diverso. Una
volta tutelata la propria salute, ci ha immediatamente assaliti l’angoscia per la tenuta economica della nostra
famiglia, dell’intero Paese. Abbiamo aperto l’allegato al file principale (il coronavirus) e siamo piombati nell’era
“dopo Coronavirus”5
(d’ora in avanti solo dC). Paradossalmente, stando fermi e rinchiusi tra quattro mura,
abbiamo intravisto una strada. Da percorrere senza una meta precisa. Se fosse durato poco, ne sono convinto, non
avremmo neanche cominciato a camminare. Non è andato tutto bene, ma ora dobbiamo rialzarci.
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